Perché se ti definisci femminista non dovresti comprare fast fashion
“La moda è espressione di noi stessi” e da qualche anno a questa parte, i nostri vestiti ci permettono anche di comunicare la nostra adesione al movimento femminista. Ciò implica spesso una contraddizione: la maggior parte degli indumenti in questione è prodotta da brand fast fashion, e questo approccio alla moda – oltre ad avere un impatto ambientale molto alto – ha ben poco di femminista.
Nell’ultimo periodo sempre più consumatori sono consapevoli delle condizioni di sistematico sfruttamento in cui vivono i lavoratori del settore – soprattutto quelli coinvolti nelle prime fasi della produzione – e dei loro salari tutt’altro che dignitosi. Dal rapporto di The Clean Clothes Campaign di Settembre 2020 è emerso che ancora nessuno tra 108 brand considerati (quali brand sono stati considerati? Fast fashion o altro?) è in grado di garantire che i suoi fornitori paghino ai loro dipendenti almeno uno stipendio di sussistenza.
Le donne nel tessile.
Circa l’80% della forza lavoro è composta da donne. I datori di lavoro possono infatti trarre vantaggio da alcuni stereotipi culturali, che dipingono le donne come “passive” e soprattutto “incapaci di prendere decisioni”. Per questo motivo alle donne vengono affidati molto più raramente ruoli di supervisione: nella maggior parte dei casi sono operaie, quindi occupano una delle posizioni più vulnerabili del settore e a cui spetta il salario più basso. Il problema delle basse retribuzioni le riguarda infatti più degli uomini: in India, per esempio, una lavoratrice guadagna l’88% del salario di un uomo.
Non sentirsi al sicuro.
Sul luogo di lavoro le donne sono giornalmente soggette a violenza fisica, verbale e non verbale. Secondo una ricerca di CARE International del 2017, un terzo delle lavoratrici delle fabbriche tessili della Cambogia erano state vittime di molestie nell’anno precedente l’intervista.
Per le vittime denunciare l’accaduto non è facile. Nella maggior parte dei casi non hanno nessuno a cui rivolgersi, vista la larga predominanza maschile sia nel management della fabbrica che nei sindacati; e l’ambiguità della legge nazionale – che sembra intervenire in caso di violenza, ma non s’interessa ad altri comportamenti sessuali indesiderati – non aiuta.
Il problema principale sta però nel fatto che molto spesso gli aggressori hanno lo stesso volto dei loro capi e supervisori. Di conseguenza, il silenzio è reso necessario dalla paura di perdere il proprio lavoro e quindi lo stipendio di cui hanno disperatamente bisogno. Data la totale mancanza di misure di protezione o prevenzione a livello sociale, spetta alle donne proteggersi, anche se a discapito della propria libertà personale.
Il costo delle molestie.
Le molestie sessuali non danneggiano solo la salute mentale delle vittime, ma incidono anche sulla società in cui vivono e sul settore in cui lavorano. Per la stessa industria della moda, infatti l’impatto economico non è indifferente: CARE ha stimato che ogni anno, per questo motivo il settore perde 89 milioni di dollari. In particolare la perdita di produttività di chi subisce molestie gli costa ben 88 milioni; si perdono quasi 550 mila a causa dell’assenteismo (si calcola una media di 3.3 giorni a seguito della molestia); e 85 mila per via della fuga verso altre aziende.
E non è tutto: le molestie pesano sul sistema sanitario, contribuiscono ad abbassare la qualità della vita, causano disoccupazione e scoraggiano le donne dal tentativo di inserirsi nel mondo del lavoro.
Alla fin fine, quindi, voi e la maglietta che nel vostro armadio sentite urlare “Girl Power”, probabilmente non la pensate allo stesso modo.
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@ecocentrico.o è una giovane realtà digitale che, attraverso gli occhi di due studentesse universitarie, prova ad informare sui cambiamenti che avvengono a livello aziendale, economico, sociale e politico in risposta alla crisi climatica.
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