Che cos’è il Pinkwashing?
“Dovremmo tutti essere femministi”, “Girl Power”, “Ecco come appare un* femminista”
I brand di fast fashion – quando si tratta di saltare su un trend – non tardano mai: se si analizzano però più attentamente t-shirt e felpe che vantano questi popolari claim empowering, saremmo altrettanto fast nel constatare che hanno tutte ben poco di femminista. Proprio come in Mean Girls, questo Mercoledì il fast fashion si vestirà di rosa. Per restare in tema: no, non vogliamo sederci con voi.
Per aumentare le vendite e avvicinare i consumatori sensibili alle tematiche sociali e che abbracciano il femminismo, brand – di moda e non solo – nascondono dietro una vivida pennellata rosa la loro condotta etica discutibile. Tale fenomeno è conosciuto come “pinkwashing”. Il termine deriva tra la crasi di “pink” – colore simbolo dell’emancipazione femminile – e di “whitewashing” (imbiancare, nascondere). Le modalità sono pressoché identiche a quelle del più noto greenwashing. Il pinkwashing si appropria infatti dei linguaggi, simboli e valori del femminismo per migliorare la brand reputation. Tutto però resta a un livello estremamente superficiale. Si tratta di slacktivism: una forma di attivismo che richiede il minor livello di impegno possibile, che permette al brand di apparire attento, senza però fare alcun cambiamento significativo. Parliamo quindi di puro e semplice marketing.
Femvertising e Giornata Internazionale della Donna
Il cosiddetto femvertising – lo sfruttamento del femminismo nell’industria pubblicitaria – è particolarmente diffuso durante occasioni come la Giornata Internazionale della Donna, celebrata l’8 Marzo. Il fenomeno ha un impatto potenzialmente molto grave: si rischia infatti di creare un’illusione di progresso nella battaglia per i diritti delle donne, nascondendo gli effettivi comportamenti, policy e statistiche di diversità dell’azienda.
Tutt’al più, la Festa della Donna è intrinsecamente legata alla scarsa considerazione dei diritti delle donne e dei lavoratori nell’industria del fashion. Probabilmente questa ricorda infatti quanto accaduto il 25 Marzo 1911 alla Triangle Waist Company, una fabbrica di camicie di New York. Il tremendo incendio che portò alla morte di ben 146 donne ha esposto al mondo le disumane condizioni lavorative delle donne nella società industriale: le operaie della Triangle lavoravano sessanta ore alla settimana (non tenendo ovviamente in considerazione gli straordinari, non pagati) a ritmi feroci e massacranti, spesso causa di incidenti. Erano inoltre sottomesse al management maschile della fabbrica, che non si risparmiava violenze fisiche e verbali.
Fast fashion e femminismo: una contraddizione in termini
Ad oggi, l’industria del fashion vale oltre 3 mila miliardi di dollari. Nel tentativo di ridurre le spese e aumentare i profitti, è fortunatamente sempre più risaputo che i brand di fast fashion decidano di localizzare la loro produzione in paesi in via di sviluppo dove le normative sul lavoro sono molto più permissive. Qui circa l’80% della forza lavoro è composta da lavoratrici donne di colore, per cui – rispetto a quel 25 Marzo 1911 – la situazione non è drasticamente migliorata. Salari tutt’altro che dignitosi, assenza di diritti e molestie sono all’ordine del giorno. Basti pensare che lì un’operaia guadagna in media l’88% del salario di un uomo e che – secondo una ricerca condotta da CARE International del 2017 – un terzo delle lavoratrici delle fabbriche tessili della Cambogia erano state vittime di molestie nell’anno precedente l’intervista.
Per questi motivi, è difficile credere che le narrazioni femministe di questi brand siano autentiche.
Il caso Victoria’s Secret: un pinkwashing approssimativo
Prendiamo in considerazione uno dei brand più contestati dal movimento femminista: Victoria’s Secret. Nel 2020, l’azienda aveva visto un drastico calo della sua quota nel mercato americano dell’intimo femminile. Quest’ultimo è stato causato da una serie di fattori: prime tra tutti le critiche alla promozione di standard di bellezza omogenei e inarrivabili, al disprezzo nei confronti delle donne transessuali, ad accuse di sessualizzazione di minori e sessismo, misoginia e fat-shaming. Dopo numerosi scandali che l’hanno vista protagonista, Victoria’s Secret è stata oggetto di un radicale rebranding, nel tentativo di ridefinire la definizione di “sexy” e – come detto dal CEO nel 2021 – di non focalizzarsi più su “ciò che vuole lui” ma “su ciò che vuole lei”. Sicuramente un’evoluzione rispetto al 1977, anno del lancio del brand, quando gli store erano promossi come “un posto in cui un uomo può sentirsi a suo agio nel comprare lingerie”.
Non si può però dire che l’azienda stia avendo successo nell’essere “il maggiore sostenitore delle donne al mondo”. Un report pubblicato da Remake nel 2021 evidenzia infatti che Victoria’s Secret – nonostante le promettenti dichiarazioni – ha continuato a sottopagare le sue lavoratrici e a fornire spazi e condizioni di lavoro non adeguate nelle sue fabbriche tessili.
Senza trasparenza, un brand non può proclamarsi sostenitore delle donne.
“Sostenere soltanto le donne che sono anche tue clienti non è sostenere le donne” – Remake 2021
Questo 8 Marzo (ma anche durante la prossima Festa della Mamma o Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne), non sedetevi con Regina George.
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Arianna Ranieri
Laureata in Economia e Management all’Università Bocconi, con una grande passione per l’imprenditoria ed il fare impresa in modo sostenibile, etico e femminista. Convinta della realizzabilità e dell’urgente necessità di un cambiamento, è interessata a comprendere e sviscerare come le aziende e i singoli possano avere un impatto positivo sul territorio, sia dal punto di vista ambientale che da quello sociale.
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